Voglio inaugurare questo nuovo anno con un articolo della rubrica Racconti Fotografici per andare a scoprire le terre dimenticate attraverso i racconti di Andrea Pozzi, un’intervista suddivisa in due parti.
>Si definisce principalmente come uno storyteller, ma a mio avviso è anche un bravissimo fotografo e la sua passione per l’avventura lo porta a spingersi sempre più in luoghi selvaggi, lontani dalla civiltà e totalmente immersi nella natura.
Nel corso degli anni è riuscito ad ottenere numerosi riconoscimenti internazionali per la sua fotografia naturalistica, tra cui il più prestigioso al mondo: il BBC Wildlife Photographer of the Year.
La sua esperienza inoltre lo ha portato a diventare anche una guida esperta e riconosciuta e come tutor fotografico in diversi ambienti.
Conosceremo, quindi, il suo modo di viaggiare in solitaria, il suo modo di vedere le cose e il suo progetto Forgottenlands.
Presentati. Chi è Andrea Pozzi?
Buongiorno a tutti i lettori e grazie per avermi dedicato questo spazio, sarà un piacere rispondere alle vostre domande.
Andrea è ancora quel bambino curioso che osservava antiche mappe sbiadite e mappamondi, sognando di raggiungere un giorno terre lontane.
Negli anni ha avuto l’opportunità di spingersi negli angoli più remoti del mondo per poi raccontare le sue storie a un pubblico sempre più ampio e appassionato.
Ogni nuova esperienza rappresenta per lui una grande occasione di crescita. Ritiene che un territorio sia molto più di un semplice luogo geografico e che venga forgiato dalla nostra immaginazione così come dalla nostra capacità di sentirci finalmente partecipi del mondo naturale.
L’incessante desiderio di scoprire e di mettersi alla prova, ha dato origine al suo personale progetto fotografico (o forse di vita), “Forgottenlands” ossia “terre dimenticate“.
La sua fotocamera gli ha fatto compagnia nei luoghi più selvaggi e “dimenticati”, permettendogli di ammirare incredibili spettacoli naturali come gli immensi ghiacciai dell’Alaska e dello Yukon, le aguzze vette della Patagonia e dello Shangri-La, i paradisi tropicali della Polinesia, gli altipiani andini, le desolate lande della Scozia, le intricate foreste della Nuova Zelanda, lo straordinario inverno giapponese, la selvaggia taiga siberiana, le aurore boreali lapponi e così via.
Si definisce uno storyteller, più che un fotografo. Ritiene che la fotografia sia soltanto uno dei molteplici mezzi che ci permettono di raccontare ma soprattutto di raccontarci, nella maniera più completa e intima possibile.
Ha avuto la fortuna di viaggiare moltissimo e ogni nuova esperienza nasce con l’obiettivo di conoscersi meglio, entrando in contatto con l’anima più pura dell’avventura e dell’esplorazione. Raccontare il proprio stato d’animo attraverso il paesaggio è diventato, negli anni, il fine primario del suo peregrinare.
Ha conseguito in maniera continuativa numerosi riconoscimenti nei più importanti concorsi internazionali di fotografia naturalistica, incluso il più prestigioso al mondo: il BBC Wildlife Photographer of the Year.
Andrea è conosciuto per la sua grande passione per l’avventura e per uno stile di vita anticonformista, che lo vede spesso protagonista di esperienze in solitaria e a volte singolari nella natura selvaggia.
Comunica in 4 lingue: italiano, inglese, spagnolo e russo.
L’esperienza sviluppata negli anni lo ha portato ad affermarsi come guida esperta e riconosciuta (e come tour leader) nei più disparati ambienti. Particolarmente legato all’America Latina, propone ogni anno spedizioni e photo tours in ogni angolo del pianeta.
Dopo essersi laureato in architettura ambientale nel 2009, il suo percorso di vita lo ha tuttavia portato ad allontanarsi da una professione fisicamente statica per applicare le conoscenze e il gusto estetico sviluppato durante il corso di studi nell’arte fotografica: crede fermamente che la lettura delle proprie fotografie sia strettamente legata al nostro background, a tutto ciò di cui abbiamo fatto esperienza durante la crescita.
Dal 2005 è maestro di sci, abilità che spesso gli permette di raggiungere luoghi incontaminati.
Il suo motto è:
”Andare per terre selvagge significa marciare alla scoperta del terreno più ostico da comprendere: la conoscenza di noi stessi…”
Come è avvenuto il tuo approccio alla fotografia?
Direi in maniera abbastanza naturale e casuale all’età di 12 anni, durante un viaggio con i miei genitori in Spagna. Quell’estate, visitando la celeberrima Sagrada Familia di Antoni Gaudí , scattai con la vecchia fotocamera analogica di mio padre una lunga sequenza di foto a ogni dettaglio che attirava la mia attenzione. Quell’opera umana aveva un non so che di naturale, di primordiale ed esoterico.
Ringrazio i miei genitori per avermi concesso piena libertà creativa nonostante fossi ancora un bambino. Con tutta probabilità il seme stava già germogliando allora!
Nel 2007 invece, durante un lungo road trip dalle Alpi a Capo Nord in Norvegia, mi resi conto che la fotocamera compatta in mio possesso non era adeguata per poter rappresentare gli incredibili paesaggi e le forti emozioni che stavo vivendo.
Al mio ritorno decisi quindi di acquistare la mia prima reflex (una Canon 30D usata) e così ebbe inizio il mio cammino nel mondo dell’arte fotografica, che mai avrei immaginato mi avrebbe portato fino a qui, oggi!
Quando hai capito che la fotografia potesse diventare il tuo lavoro?
Non l’ho mai capito, non l’ho mai pensato e nemmeno desiderato. È semplicemente successo. Fatico a definire quello che faccio “lavoro”, siccome rimane inalterata quella forte passione e curiosità che mi spinge, con grande gioia e naturalezza, a mettermi sempre di più alla prova.
Credo che negli anni, tutto quello che avevo inconsciamente seminato, si sia trasformato in un qualcosa di veramente prezioso al punto di invogliarmi a condividere la mia passione e il mio modo di vedere/viaggiare con il mondo.
Come è nato il tuo progetto Forgottenlands? Cosa ti ha spinto a documentare le terre dimenticate?
Credo che sia nato molto tempo fa, prima ancora di cominciare a fotografare. Ho sempre subito una forte attrazione per le terre remote che, come accennavo sopra, fantasticavo di raggiungere scrutando antiche mappe che riportavano misteriose diciture latine come “Hic sunt leones”.
I luoghi ignoti rappresentano per me un magnete. Paesaggi incontaminati, con un forte spirito primordiale e in grado di trasportarmi indietro nel tempo. Più lontano dalla civiltà mi trovo e più sento vibrare l’anima ancestrale del pianeta, così come la mia.
Negli anni ho poi scoperto che le “terre dimenticate” più affascinanti ed enigmatiche sono proprio quelle che custodiamo all’interno del nostro spirito, in una grande metafora che esemplifica quella che è la mia ricerca personale.
Molti vorrebbero intraprendere dei lunghi viaggi in luoghi dimenticati, ma un po’ per paura e un po’ perché non sanno da dove iniziare, ci rinunciano. Quando sei in un luogo per lungo tempo ti appoggi a strutture organizzate o vai all’avventura? Hai consigli da dare a chi vorrebbe intraprendere un viaggio del genere?Quali sono e come affronti le difficoltà che si possono presentare durante un viaggio in un luogo remoto?
Sicuramente la condizione di incertezza tipica dell’avventura in solitaria, impedisce a molte persone di “lanciarsi nel vuoto”. Ma è proprio in questa condizione che dobbiamo trovare la forza di provare, perché finché rimarremo ancorati alla routine, alla ripetitività delle giornate, perderemo la parte più bella della vita, ossia quella dove scoperta, sorpresa e imprevedibilità sono elementi essenziali.
Anche la questione logistica è sicuramente un freno per molti ma in realtà ritengo che ogni tipo di viaggio sia più “semplice” di quanto uno si possa aspettare. Il gradino più ostico da affrontare è sempre e comunque il primo e quando ci saremo lanciati in una nuova esperienza, automaticamente andremo incontro a una magnifica trasformazione, facendo persino fatica a riconoscere noi stessi. A me è accaduto proprio questo per la prima volta molti anni fa.
Proiettati in una nuova realtà siamo obbligati a cavarcela da soli, diventiamo immediatamente più saggi, attenti, più divertenti, entusiasti e aperti ad imparare. È un vero e proprio bagaglio che riempiamo passo dopo passo.
“Per me il viaggio è l’università del nuovo millennio! Il problem solving lo si sviluppa solo quando ci si trova ad affrontare un reale problema, non studiandolo a tavolino.”
Se avete un sogno nella vita, allungate la mano e acciuffatelo! Una volta rotto il ghiaccio poi vorrete sempre di più e vi renderete conto che, in fondo, avreste potuto romperlo anche prima!
I miei viaggi si protraggono spesso per mesi. C’è viaggio e viaggio chiaramente, in base anche all’area geografica che sto esplorando. A volte tutto quello che porto con me è uno zaino da trekking da 120 litri, nel quale infilo tutto il necessario per sopravvivere qualche mese: tenda, sacco a pelo, fornelletti e attrezzatura varia da campeggio, vestiti di ogni tipo (nei viaggi itineranti capita di trovarmi in condizioni climatiche opposte fra di loro a distanza di poche settimane – ricordo un anno di essere passato dalle abbondanti nevicate di fronte ai vulcani neozelandesi, alle più remote spiagge della Polinesia in pochi giorni!).
Oltre a questo non deve mai mancare un kit medico, attrezzatura tecnica, oltre a quella fotografica e un elevato spirito di adattamento, che si sviluppa comunque di esperienza in esperienza. Ho dormito nei luoghi più disparati: in tenda a un passo dalla scogliera per farmi cullare dal fragore delle onde, all’addiaccio in una grotta a 5000m, nei chiassosi treni cinesi, in auto sotto l’aurora boreale nei Territori dello Yukon, in un monastero tibetano lontano dalla civiltà, sulla transiberiana e così via.
Tutto questo fa parte dell’emozione del viaggio, non sapere esattamente dove dormirai ma sapere comunque che, in qualche modo, lo farai! Il mondo è pieno di possibilità e sta a noi saperle cogliere. Come spesso ripeto, è nell’apparente disagio che impariamo e che viviamo i capitoli più entusiasmanti della storia della nostra vita!
Quale privilegio poi nel poterla raccontare, è meraviglioso.
Il consiglio che mi sento di dare a chi volesse cominciare ad intraprendere questo tipo di esperienze è di andare per gradi. Ognuno di noi ha un’asticella, dobbiamo essere bravi ad alzarla costantemente ma di pochi centimetri alla volta. Sarà poi l’esperienza a suggerirci di quanto alzarla la volta successiva.
Nel momento in cui stiamo facendo un qualcosa che per noi risulta nuovo, anche di semplice, siamo già proiettati verso il cambiamento e con entusiasmo cominceremo ad apprezzarlo.
C’è da dire che negli ultimi anni si è tutto semplificato in una maniera incredibile. Con i mezzi di comunicazione che abbiamo a disposizione, con la possibilità di effettuare prenotazioni direttamente dal telefonino, gli imprevisti si stanno riducendo sempre di più. Credo che, nonostante gli infiniti orizzonti che si stanno aprendo, da un certo punto di vista sia un peccato. Per questo a volte mi privo volontariamente di connessione e gps per vivere la più autentica esperienza possibile e per godermi, quando mi trovo nella civiltà, la più pura e spontanea interazione con la gente del luogo!
Per quanto riguarda vitto e alloggio non ci sono grossi problemi, sempre con un buono spirito di adattamento chiaramente. In aree remote si è completamente dipendenti da ciò che portiamo nello zaino invece ed è essenziale organizzarlo in maniera ottimale.
Mettendo da parte la fase dello scatto vero e proprio, qual è la parte del viaggio che ami di più?
Ce ne sono molte, non riuscirei a fare una classifica perché sono estremamente diverse fra di loro.
Ne cito qualcuna: amo quando avviene la folgorazione ammirando una mappa e decido di partire senza troppe riflessioni. Amo quando sento che l’aereo si stacca da terra e allora vengo proiettato in una delle dimensioni che preferisco, quella dell’incertezza del futuro. Amo quando mi rendo conto di essere lontano da tutto e da tutti ma vicino a chi è davvero importante per me, navigando fra le mie emozioni più intime. Amo quando sento di essere testimone di un qualcosa di speciale e forse mai raccontato prima, mi fa sentire unico. Amo quando torno a casa, quando scopro che è tutto reale e sento di essere cresciuto (e di essere amato).
Ti definisci un fotografo, un avventuriero e uno storyteller. Qual è il tuo modo di raccontare una storia, una sensazione, un’emozione?
“Cantagallo” di Robin Hood della Walt Disney è sempre stato uno dei miei personaggi preferiti!
Era un cantastorie che diffondeva leggende, esaltava luoghi misteriosi e figure eroiche, narrava le proprie storie accompagnandosi con uno strumento musicale.
Alla stregua dei cantastorie medievali sento di avere sempre più voglia di raccontare quel lato spesso nascosto, ancestrale e selvaggio del nostro pianeta, affiancato sì da strumenti ma di diverso tipo: penna e fotocamera.
Credo che la fotografia sia un mezzo straordinario per poter raccontare una storia e soprattutto per potersi raccontare. Ho l’opportunità di confrontarmi costantemente con un pubblico eterogeneo di persone (attraverso workshop fotografici, sessioni di mentoring, mostre, serate di condivisione o articoli) e questo è un enorme privilegio.
Penso che dovremmo dedicare più tempo al confronto. Il nuovo millennio corre, la società è indaffarata e ci incanala su binari prestabiliti, le moderne “armi di distrazione di massa” ci stanno privando, nostro malgrado, della libertà.
“La vita comincia nel momento in cui proviamo ad ignorare per un po’ il telefonino e una prima e inaspettata emozione può derivare da questa semplice scelta!
Non è sempre necessario andare ai confini del mondo!”
Andrea Pozzi
Sito web: www.forgottenlands.it
Facebook: Andrea Pozzi Nature Photographer
Instagram: @andreapozzifl
Concludo la prima parte dell’intervista con questa bellissima citazione su cui invito tutti ad una profonda riflessione. Sono perfettamente d’accordo con Andrea, in effetti da diversi anni poniamo la nostra attenzione principalmente sui nostri telefoni e tablet dimenticandoci che la vita è tutto ciò che ci circonda. Basta solo, quindi, alzare lo sguardo per accorgerci che il mondo ci può regalare tantissime belle emozioni.
Non perdetevi la seconda parte dell’intervista in un prossimo articolo.
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